L’Italia interna, per intenderci, è un’area che racchiude all’incirca il 60 per cento del territorio italiano e il 52 per cento dei comuni. Questo vuol dire che 13 milioni di abitanti, prevalentemente delle zone alpine e appenniniche, hanno meno opportunità e servizi (occupazione, reddito medio, mobilità). La conseguenza è lo spopolamento e l’abbandono del territorio, che non vuol dire solo perdita della superficie agricola, bensì dissesto idrogeologico, contrazione demografica, sottoutilizzo o degrado del patrimonio edilizio pubblico e privato, e nel lungo periodo impoverimento generale della popolazione.
Prendere consapevolezza di questo vuol dire non fermarsi alla classica dicotomia nord-sud, per fotografare un’Italia dei vuoti e dei pieni, fatta di varietà incredibili ma anche di divari abnormi, in cui la dimensione demografica, per esempio, svela l’incidenza delle cosiddette risorse umane sullo sviluppo: i territori che attraggono maggiormente giovani laureati nella fascia 25-39 anni segnano un fattore determinante nella crescita e nello sviluppo di un territorio.
se ripopolare e riabitare nella sinergia tra nuove tecnologie e vecchi saperi è una strada, l’altra parte della medaglia, di cui nessuno o quasi vuole parlare, è la decompressione delle aree massicciamente urbanizzate, per ridisegnare il territorio secondo un assetto più equilibrato e sostenibile. Il punto poi, è la quasi completa assenza di una politica nazionale e regionale che abbia la capacità di guardare al tutto, e non solo a settori specifici, per altro sempre slegati e miopemente parcellizzati.
Pensiamo ai fondi europei per l’agricoltura. Hanno lo stesso valore economico e sociale 10.000€ investiti in pratiche intensive nella piana del Sele, oppure investiti in una piccola azienda agricola multifunzionale delle aree interne?
Questo vuol dire dar rendere i fondi europei, decidere come investire in funzione di una visione futura e di un nuovo modello di consumo.